domenica 27 settembre 2009

Manuale del perfetto turista, Beppe Severgnini, ed. Bur, 2009

Denominazione industriale: Severgninax

Indicazioni: antiemetico (deve ancora superare test clinici); contro il mal da viaggio è meglio della Xamamina.

Composizione: il presente manuale è in realtà una raccolta di tutti i libri scritti da Severgnini sul viaggio o, più precisamente, sugli italiani in viaggio.

Somministrazione: per os o in forma cartacea. Un’ottima scelta per la lettura sotto l’ombrellone.

Dosaggio: capitoli brevi con argomenti che si susseguono velocemente e il solito stile accattivante del Beppe nostrano. In effetti, non si può dire che Severgnini non scriva bene. Ho sempre ammirato le descrizioni molto analitiche che riempiono le pagine dei suoi libri, compresi questi minisaggi che spaziano per territorio e oggetto della ricerca. E soprattutto ammiro sinceramente un uomo che è riuscito a portare la moglie in viaggio di nozze sulla Transiberiana. Scusate se è poco. La descrizione del viaggio attraverso la Russia degli anni ’80 è una delle più interessanti del libro, forse perché è un’esperienza che quelli della mia generazione non potranno mai vivere. Ma altrettanto precise ed esilaranti si sono rivelate anche le descrizioni dei bagni pubblici di mezzo mondo, dai polacchi con cerchi e triangoli per donne e uomini, ai sofisticati giapponesi e ai bucolici cinesi.

Principio attivo: Severgnini il castigatore dei costumi prende di mira i connazionali all’estero – categoria che anch’io effettivamente tendo ad evitare per motivi analoghi – che, varcato il confine, si lasciano sopraffare dagli istinti più belluini e vengono presi dall’irrefrenabile impulso di sottrarre dall’albergo di turno ogni bene mobile a partire dal più inutile (generalmente vince la cuffia per capelli). In fondo lo sguardo è anche abbastanza indulgente, ma non mostra invece compassione per il turista inebetito dall’esperienza della gita collettiva che si lascia intortare dal ‘falso viaggio’, una vera invenzione del Ventesimo secolo in cui si sono specializzate innumerevoli agenzie di viaggio, quelle che non mancano di offrire autentiche cerimonie del tè berbere nel deserto servendosi di una nutrita schiera di povere comparse. Non si capisce proprio come mai nessuno protesti per questa messinscena in stile barocco.

Precauzioni di impiego: se non ci si aspetta troppo dalla lettura rimane un buon libro.

Controindicazioni: le uniche controindicazioni sono per chi detesta Severgnini e per chi non è disposto ad essere preso in giro.

Reazioni avverse: disturbi bipolari accertati. Si rischia ad esempio di riconoscersi negli stacanovisti delle visite guidate o del sightseeing, come le decorose turiste di mezza età che sembrano ossessionate dall’idea di dover mettere piede in ogni museo o meta turistica elencata nelle guide.



martedì 8 settembre 2009

Julio Cortázar, Il gioco del mondo (Rayuela), trad. di Flaviarosa Nicoletti Rossini, ed. Einaudi Tascabili



Una folgorazione, un misto fra Kerouac (per il ritmo, per il jazz, per le visioni), Perec (per le passaggiate notturne a Parigi, per la vita un po’ sbrindellata)… e Javier Marias, forse, peccato che anche lui non finisca per ‘c’, ma non saprei dire perché. E poi sarà Javier Marias che assomiglia a Cortázar, non viceversa. In ogni caso.


Come si fa a non amare un romanzo che inizia dicendoti che questo libro si può leggere nell’ordine classico in cui si leggono i libri oppure si può leggere spulciando qua e là, seguendo il numero suggerito alla fine di ogni capitolo?


Impossibile dire quel che capita qui dentro, trama, una, forse mille... Impossibile anche raccontare quanto l’anima di uno scrittore che fa capolino fra le parole, possa arrivare a collimare perfettamente con l’anima del lettore, immerso nelle parole, in questo caso: io.
Le avventure di Horacio e della Maga, tra Parigi e Buenos Aires, bevendo molto mate e con le scarpe perennemente inzuppate di pioggia. E poi Talita e Traveler e Morelli e la clinica e il gioco del mondo e il jazz il mate la filosofia…
E che dire del meta-Cortázar e del meta-Rayuela che inonda il capitolo “Da altre parti”, in cui si possono seguire tutti i fili che reggono i dialoghi, i personaggi, i pensieri di ogni personaggio… è un po’ come fare un passo dietro le quinte, pur restando sul palcoscenico.


“Non ricordo esattamente se ho iniziato a scrivere il romanzo a Parigi o a Buenos Aires. Quello che so per certo è che un giorno d’estate, con un caldo spaventoso (doveva essere Buenos Aires) ho visto dei personaggi impegnati in una serie di azioni totalmente assurde. Erano affacciati a due finestre divise da pochissimo spazio ma con quattro piani sotto e cercavano di passarsi un pacchetto di erba mate e dei chiodi. Ho iniziato a scrivere dettagliatamente tutte le idee che venivano loro in mente per costruire un ponte con una tavola, con la quale attraversare il vuoto da una finestra all’altra e passarsi così il mate e i chiodi. […] Ho scritto quel capitolo, e alla fine (dura circa quaranta pagine) mi sono reso conto che non era un racconto. Ma allora cos’era? Era in un certo senso un frammento, una specie di cucchiaiata di miele sulla quale poi si sarebbero venute a posare mosche e api.”
E in effetti tutto il romanzo è un susseguirsi di azioni assurde, di personaggi alle prese con problemi surreali che forse non esistono e si creano loro per riempire dei vuoti che la vita si dimentica di riempire.
Così all’inizio, leggendo di Horacio che cammina per le strade di Parigi in piena notte cercando di consolare una pianista fallita di musica dodecafonica, oppure vedendo lui e la Maga parlare in gliglico, all’inizio ci scappa pure un sorriso, un’alzata di spalle, un’esclamazione del tipo ‘ma che assurdità!’… invece, continuando a leggere, si arriva alla fine e ci si accorge che in fondo in fondo, le occupazioni che impegnano i nostri personaggi non sono poi più surreali delle nostre, che quello che fanno loro della loro vita non è, alla fine, più surreale di svegliarsi tutte le mattine alle sette, andare a lavorare, fare la spesa, eccetera eccetera eccetera…