giovedì 22 ottobre 2009

Norwegian wood. Tokio blues, Murakami Haruki, Einaudi, 2006


Questo libro l'ho comprato per caso, ed è causa e risultato di una strana coincidenza per cui sembra che i libri formino una specie di irrealtà (o reltà alternativa) in cui noi, lettori avidi, siamo protagonisti passivi. Ebbene, in berve: avevo appena chiuso il libro che stavo leggendo mentre un certo uomo autografo canticchiava "Norwegian wood" dei Beatles. Entro in feltrinelli. Ed ecco qui una ragazza che elogiava il libro di cui parlo in una maniera tale che, nonostante non avessi seguito il mio rituale di acquisto di un libro, senza accorgermene ero già alla cassa che pagavo. In strada lo guardo e scopro che il titolo era "Norwegian wood". Coincidenza. Premetto che ho una certa difficoltà a leggere gli autori giapponesi, ma appena ho aperto "Norwegian wood", non ho potuto far altro che ritrovarmi addosso una sensazione pastosa di leggerezza e solitudine che mi ha immediatamente sedotta. Leggerezza perchè la scrittura di Murakami è semplice e lieve anche se parla di dolore e morte, e cerca di porre gli eventi sotto una luce neutra, che non distorca la vita da quella che in realtà essa è. Sembra che Murakami chiami tutto con il nome giusto, senza vezzeggiativi o perifrasi barocche, e facendo in modo che l'occhio scorra e che il lettore esalti i suoi sentimenti di fronte ai temi che il libro affronta. Solitudine perchè il protagonista, Watanabe, è fondamentalmente una lumaca che si sposta solitaria tra le strade di Tokio. Nei suoi dialoghi con gli altri personaggi, Watanabe sembra rimanga sempre isolato, incapace di darsi fino in fondo agli altri, amici o amanti che siano. Watanabe non racconta. Sembra piuttosto che gli altri tendano a confidargli tutto mentre lui se ne rimane in silenzio ad ascoltare e pensare alle canzoni jazz che gli frullano in testa.
Il libro è il racconto di un uomo che riascoltando "norwegian wood"in aereo viene assalito dai ricordi e ripercorre i suoi primi anni in università e il suo rapporto con le due protagoniste: Naoko, ex ragazza del suo migliore amico, morto suicida a diciassette anni, e Midori, giovane donna energica e combattiva. Il tutto ha come sfondo il Giappone della fine degli anni 60: le strade e le stazioni della metro che scandiscono la vita dei protagonisti, tanto che si potrebbe seguire le loro passeggiate con una cartina di Tokyo tra le mani, le lotte studentesche e le canzoni di quegli anni che accompagnano lettore e protagonista dal titolo sino all'ultima pagina.
Quando parlavo entusiasta di questo libro con miei amici, parecchi hanno storto il naso, e qualcuno non ne ha voluto neppure parlare tanto il libro è intriso di morte e soprattutto di suicidio, e quando accennavo al fatto che invece il libro mi sembrava il racconto di una lotta dolce e sanguinolenta per una vita che possa esprimere al meglio le aspirazioni dei personaggi, loro mi guardavano come a dire "Chissà, ma non mi convinci". D'altronde, nell'edizione einaudi che ospita una premessa di Murakami, l'autore dichiara che questo libro, come lui, è stato amato o odiato, senza mezze vie. Io sono tra quelli che ha amato Murakami e "Norwegian wood", dall'invsibile sottofondo jazz che anima il libro, al modo limpido e lontano dai cliché romantici con cui il sesso partecipa a queste pagine.
Proposta li lettura: la tromba di Armstrong ama Murakami. E viceversa. Quindi ecco un suggerimento per le orecchie.

venerdì 2 ottobre 2009

L'odore dell'India, Pier Paolo Pasolini, ed. Guanda, 2000




In realtà l’odore dell’India esala poco da queste pagine, ci sono invece impressioni visive, uditive, colori, tessuti variopinti, il giallo ocra che avvolge tutto, il bianco delle lenzuola che gli indiani usano come vestiti, stracci che si gonfiano quando corrono e svolazzano. Si sentono molti suoni, canti, litanie, rumori assordanti e fastidiosi, silenzi. L’India vista da Pasolini è così, un caleidoscopio di inferno e di bellezza.
Profondamente impressionato dalla povertà e dall’atteggiamento d’indifferenza che chiunque è costretto ad assumere di fronte a quella povertà; spesso in preda a rabbiosi colloqui mentali col leader indiano di allora, Nehru; e continuamente incantato dalla bellezza e dalla dolcezza degli indiani, Pasolini vive così le sue settimane in India e scrive queste pagine che non sono un vero e proprio diario di bordo, ma sono suggestioni, immagini, storie colte qua e là durante il viaggio.
Siamo nel 1961 e Pasolini è in viaggio con Moravia e con Elsa Morante. Da questi scritti Moravia, che appare ogni tanto come una luce intermittente, ne esce come un tipo di viaggiatore molto british, igienista, documentatissimo, ma un po’ distante dal mondo che osserva; Elsa Morante invece resta fuori dalle pagine del libro, fa irruzione solo una volta, anche lei, come Pasolini, attratta dall’assurdo, più selvatica, e con la voglia irresistibile di scoprire l’India dal basso, di conoscere e parlare con le persone per le strade, loro sono i viaggiatori terzomondisti e sentimentali. Pasolini è alla ricerca di esperienze personali, popolari, intime, non necessariamente culturali. Moravia invece è sempre legato a una sorta di ideologia (a conferma di questo, il libro che ha scritto dopo il viaggio s’intitola “Un’idea dell’India”) e questo suo atteggiamento fa spesso ridere la Morante e Pasolini che lo prendono in giro per i suoi sospettosi rapporti con i dakoyt e con la cucina indiana…
Un libro che si legge velocemente, che fa riflettere sulla situazione indiana (anche se nel frattempo saranno cambiate tante cose)… ed è in fondo come fare una passeggiata attraverso l’India filtrata dagli occhi di Pasolini, e quello che filtrano gli occhi di Pasolini non può che essere meravigliosamente poetico e bello. Tutto sommato mi sembra un buon consiglio di lettura per oggi, due ottobre; questo gandhiano giorno internazionale della non violenza.