venerdì 31 luglio 2009

Anonimo russo, La via di un pellegrino. Racconti sinceri di un pellegrino al suo padre spirituale, trad. di Alberto Pescetto, ed. Adelphi, 1972


Per Nunzia che ancora non mi conosce ufficialmente mi presento attraverso un libro che ho salvato dalla mia biblioteca preferita grazie a una pusher letteraria di fiducia. Naturalmente la mia ossessione per qualsiasi cosa provenga dalla Russia ha influito non poco sulla scelta, visto che di per sé il volume fa di tutto per non farsi notare, se non per dissuadere dalla lettura. Mi piaceva solo il fatto che fosse adeguatamente consunto, un particolare che si addice decisamente a un libro d’altri tempi dai contorni molto spirituali.

Tralasciando le varie ipotesi sulla genesi del romanzo, che sembra essere una raccolta di narrazioni del viaggio di un pellegrino, successivamente messe per iscritto, quello che appare evidente al lettore è la strana fusione di Cristianesimo bizantino, mistica indiana e pensiero russo.

Seguiamo il protagonista, mendico ma sorprendentemente colto, nel suo viaggio verso Irkutsk, profonda Siberia, in perfetta solitudine, accompagnato da un’unica copia logora della Filocalia, manuale molto popolare al tempo, che prometteva il ricongiungimento con Dio attraverso l’apprendimento della “preghiera interiore”, che esprime l’amore per la divinità da parte del fedele. Lo strannik, che riunisce in sé le figure del pellegrino e del viaggiatore, apprende la pratica dal vecchio maestro che compare nella prima parte della narrazione, per poi affinare la tecnica nel prosieguo del libro: dapprima, fedele agli insegnamenti del mentore, si limita a coordinare il respiro pronunciando le parole “Signore, Gesù Cristo, abbi pietà di me”, perdendosi in esse. Di seguito comincerà a rendere la preghiera interiore un’abitudine, fino a desiderare la completa solitudine, a lui tanto necessaria per pregare. Infine, lo stesso atto di respirare diventa per il pellegrino una preghiera che non lo abbandona nemmeno durante il sonno. Le altre sezioni sono, invece, riempite da aneddoti vari su persone incontrate durante il cammino o, meglio ancora, su cui il nostro eroe si imbatte quasi fossero un ostacolo sulla via dell’estasi mistica; anche le figure più pie, tramite le quali si palesano di tanto in tanto i miracoli della fede, vengono viste come un rallentamento necessario che distoglie il pellegrino dalla ben più alta ricerca della salvezza finale.

Ora, io non sono sicuramente la persona migliore per giudicare la spiritualità dei racconti, ma si è già capito che il libro mi sembra troppo anacronistico per destare l’interesse di chi non crede o di chi semplicemente pensa di leggere il resoconto di un viaggio. Personalmente l’assurdo è arrivato quando il viandante viene bastonato perché accusato di avere sedotto una fanciulla che aveva appena confessato e lui per prima cosa si mette a ringraziare Dio per avergli “concesso di patire in Suo nome” (p. 66). Non tanto perché non sia concepibile tanta fede, quanto perché a leggerlo mi sembra del tutto ipocrita e falso, quasi scritto apposta per provocare. Soprattutto l’impressione che si ricava dai soliloqui dello strannik è di una fede nascosta dalla meccanica esecuzione rituale di una preghiera.

Se è vero che ci sono indubbiamente degli echi della filosofia induista e la pace promessa dalla Filocalia ricorda a tratti l’annullamento del Nirvana, come dicevo prima il libro è invece un’ottima guida all’anima russa: ho fatto fatica a non leggere nel pellegrino fatalismo più che pace interiore, accettazione supina da parte di chi sa di essere in balia di un’entità superiore piuttosto che una rinnovata gioia di vivere, timore di Dio – nel senso più stretto del termine – anziché fede. In questo senso il libro non è nemmeno così anacronistico e illegibile: basta fare qualche piccola correzione, spostare la narrazione di un paio di secoli et voilà: ritroviamo i protagonisti russi stereotipati degli ultimi secoli di letteratura, la stessa violenza che si fa strada prepotentemente anche nelle vite di brava gente e umili contadini, consapevoli di non avere alcuna possibilità di resistere a queste manifestazioni di forza maggiore. Ma ovviamente il povero peccatore è esentato dalla lotta, ci penserà la bellezza a salvare il mondo. O Dio al posto suo.


martedì 21 luglio 2009

Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un asconsore a piazza Vittorio, e/o, 2006



(ovvero "come farsi allattare dalla lupa senza che ti morda")
Prendete una ciotola e mescolate dentro con decisione
-qualche decina di minuti de "La finestra sul cortile"
-due o tre trovate del sempreverde "Pasticciaccio"(e permettetemi di chiamarlo così)
-le pagine di attualità sul "problema-clandestini"(si, ormai queste due parole si sono fuse, si sentono pronunciare veloce veloce una dopo l'altra... sarà per caso un nuovo modo eufemizzato di parlare, della nuova leva dei razzisti forbiti?).
Quando l'impasto è denso stendere il tutto in una teglia coperta di carta oleata e infine dopo due ore di cottura spalmare sulla superficie una splendida copertina: disegni semplici e azzeccati, carta dura ma non troppo,colori che rilassano gli occhi e voilà, servite il libro caldo e fumante. Assaporate la consistenza dell'italiano di un non Italiano (Amara Lakhous è algerino per nascita e italiano per penna), il profumo della Roma multiculturale e multitaliana, la dolcezza con cui viene descritto Parviz, obbligato a scappare dalla sua famiglia, dal suo ristorante e dall'Iran e che usa il Chianti come anestetico, o l'ironia non troppo celata nei discorsi pazzoidi della signora Elisebetta, decisa a dichiarare guerra alla Cina perchè pensa che i cinesi le abbiano rubato l'amatissimo cane Valentino per mangiarlo in uno dei loro ristoranti. Eccovi qui servito un romanzo corale in cui il giallo dell'assassinio del Gladiatore è solo un pretesto per mettere in scena le voci degli abitanti del palazzo in piazza Vittorio. In ogni capitolo ognuno di questi personaggi prende la parola raccontando la propria storia e i propri rapporti con l'ascensore, metafora del modo in cui ciascun personaggio conduce la sua vita. L'ascensore è al centro delle vite e quindi delle liti dei condomini, amato e odiato, desiderato e negato, l'ascensore è il luogo comune, da condividere, e in cui viene ritrovato il cadavere del Gladiatore. L'ascensore è terra di nessuno e luogo in cui venire a conti con il diverso che per fortuna (o purtroppo per alcuni) bussa alla nostra porta.
Ciascun personaggio viene poi raccontato attraverso il diario della figura principale e onnipresente del romanzo: Amedeo, l'Italiano perfetto, il Clandestino perfetto. Clandestino. Italiano. E' proprio questa la domanda che durante tutto il libro mi sembrava che l'autore volesse instillarmi/ci: chi è davvero il clandestino, chi è davvero lo straniero? Roma appare più straniera agli occhi del milanese burbero piuttosto che a quelli della ragazza Peruviana. E poi come fare per etichettare uno straniero? Qual è il discrimine che rende diverso un popolo da un altro? Il colore del passaporto? La lingua in cui si sogna? Qual è la verità su ognuno di noi, e la verità può essere celata nel luogo dove siamo nati, negli aromi dei piatti che mangiavamo da bambini? Chi è stato ad ammazzare il gladiatore, Amedeo o Ahmed?
La risposta a tutte queste domande è racchiusa in questo libretto preziosissimo; prezioso soprattutto in questi tempi sospetti di fogli di via e barriere sbarrate da filo spinato.

sabato 18 luglio 2009

Miguilim, João Guimarães Rosa, trad. Edoardo Bizzarri, Feltrinelli, 2007

Às vezes, quase sempre, um livro é maior que a gente.
A volte, quasi sempre, un libro è più grande di noi.



Miguilim è un libro di una dolcezza sconcertante. È un mondo intero visto attraverso gli occhi di un bambino che si chiama con un diminutivo, Miguilim, che già dal nome sembra piccolino, fragile, instabile... Inizia il libro in uno stato di pura ingenuità, non conosce bene il mondo, non capisce gli adulti, si limita a giocare e gioca soprattutto col fratellino Dito. Dito, pur essendo più piccolo, è molto più saggio di Miguilim; ha un particolare equilibrio, sa le cose in anticipo, non ha bisogno di chiederle, si dà risposte da solo e pensa molto. C'è sempre Dito quando Miguilim è in difficoltà, quando a Miguilim vengono delle domande a cui nessun altro avrebbe voglia di rispondere.
Se Dito fosse ancora in casa, cosa avrebbe pensato Dito? Dito diceva che bisognava essere sempre pieni di allegria, allegri per dentro, qualsiasi cosa di brutto accadesse, allegri nel profondo. Era possibile? Allegria era vivere piano piano, minutamente, non prendersela molto per nessuna cosa.

Miguilim è anche amico di zio Terêz, l'unico adulto con cui riesce a parlare e con cui riesce a identificarsi. Quando lo zio viene cacciato da casa, lui non capisce, non se ne capacita, ma alla fine è pur sempre un bambino; non ci pensa.
Ma poi quando lo zio Terêz lo incontra per caso e gli chiede di consegnare quel biglietto alla mamma, allora sì che è preso dall'angoscia. L'angoscia di tradire l'amicizia che lo lega allo zio, l'angoscia di fare qualcosa contro il padre, qualcosa che possa far male alla sua famiglia. È la sua prima prova generale per diventare grande e fallisce. Il biglietto non lo consegnerà e quel rifiuto sarà il suo primo rifiuto di crescere, di prendere decisioni contro la famiglia e da solo (non poteva nemmeno confidarlo a Dito...).
La sua famiglia è il primo microcosmo con cui Miguilim entra in contatto e gli si presenta subito come qualcosa di incomprensibile. I componenti della famiglia non sono facilmente classificabili, neanche il lettore riesce a giudicarli per bene, perché è tutto sempre filtrato dall'occhio di Miguilim che vede il padre aggressivo, picchiarlo, prenderlo a cinghiate, liberare tutti i suoi uccellini, rompere i suoi giochi; ma è lo stesso padre che poi piange disperatamente quando Miguilim s'ammala, lo stesso che sella il cavallo e parte a cercare le arance in piena estate perché a Miguelim viene un disperato desiderio di arance durante la malattia.
La mamma, invece, è sempre molto dolce, affettuosa; è sempre circondata da un'atmosfera quasi divina e materna di gentilezza e di grazia. La immagino sempre vestita di bianco. Ma è anche una madre debole, che non lo sa difendere a dovere quando il padre se la prende con lui; è remissiva, piange sempre.

Infine la miopia di Miguilim è altamente simbolica, simbolizza la difficoltà d'integrarsi nel mondo e la difficoltà di distinguere nettamente le cose. Si curerà, infatti, solo con l'arrivo del dottor José Lourenço, che non a caso arriva per portarlo via, o meglio, per guidarlo verso la sua nuova vita, la sua nuova identità. Viene a fare da tramite per il distacco dalla famiglia; è il momento in cui Miguilim cresce e con un sussulto del cuore, chiede gli occhiali per rivedere bene, un'ultima volta, tutti i volti che ama, per poi partire per Curvelo o per chissà dove.
C'è infatti il viaggio ad aprire e a chiudere il racconto, ma che alla fine non rappresenta un vero finale, un desfecho. È piuttosto un nuovo inizio. Uscire dal Mutúm implica rompere lo spazio chiuso che delimita lo sguardo dell'infanzia, accedere all'indipendenza tanto vagheggiata, ma è anche un distaccarsi da quello che aveva amato fino ad allora, una specie di morte interiore per accedere a una nuova vita ancora tutta da definirsi.

venerdì 10 luglio 2009

Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi, ed. Mondadori, 2008

Ammetto che ero abbastanza prevenuto nei confronti di Giordano, come mi succede quasi sempre di fronte ad autori che tutte le testate fanno a gara a pubblicizzare come la rivelazione dell’anno o a bestseller di cui tutti i tuoi amici non smettono di parlare. Ma fortunatamente questa volta sono stato smentito, almeno parzialmente. Non sarà sicuramente un libro che infonde tranquillità e joie de vivre ad ogni pagina ma, checché se ne dica, il lettore si trova davanti a un libro ben scritto, ma soprattutto ben strutturato e calcolato, non necessariamente nel senso peggiore del termine. Perché anche se certi passaggi fanno di tutto per ammiccare a un pubblico il più ampio possibile, è evidente che Giordano non lascia nulla al caso. A partire dal titolo, che rispecchia perfettamente la vita dei due protagonisti, Alice e Mattia, nel loro essere parte di un mondo diverso e impenetrabile.

All’inizio del libro Alice è una bambina che suo padre costringe a prendere lezioni di sci mentre lei rimarrebbe volentieri al caldo, nella sicurezza delle solite quattro mura. E che un giorno si ritrova a valle, ancora con gli sci addosso, senza potersi muovere o chiamare aiuto. Mattia è un ragazzino con una sorella disabile che inevitabilmente finisce per avvertire come un ostacolo verso una vita normale. Un giorno decide di lasciarla in un bosco per un paio d’ore per poter andare, da solo, alla festa di un suo compagno di classe. Non si rivedranno più.

Il vero protagonista del romanzo è quello che viene definito più volte “il peso delle conseguenze”. L’invisibile successione di causa ed effetto che condiziona le vite dei due ragazzini fino all’età adulta. Quello che sorprende è la profonda normalità di Alice e Matteo, due persone come tante altre, che subiscono a distanza di anni un loro errore o il peso dei condizionamenti, fino a diventare irriconoscibili. Mentre fra di loro si dipana un universo di complicità fatta di silenzi e comprensione. Il tutto con una simmetricità che rende la lettura molto piacevole e mai veramente banale.

Uno degli aspetti migliori è appunto la capacità di Giordano di non scadere mai nei giudizi morali o nella facile categorizzazione: i problemi che affronta nel romanzo sono sempre accennati, quanto basta per essere compresi ma non tanto da apparire scontati. D’altronde, sarebbe impensabile trovare una persona che definisca il romanzo come un libro che parla di anoressia o di disabilità mentale, perché in fondo l’obiettivo di Giordano è semplicemente raccontare la storia di due ragazzi con un taglio accattivante. E se devo essere sincero, per me ci è riuscito.

Se proprio devo fare una critica, forse Alice e Mattia sono talmente protagonisti del libro che non lasciano spazio agli altri personaggi, soprattutto marginali: a parte il migliore amico di mattia, Denis, ben caratterizzato ma che sparisce abbastanza presto nel libro, personaggi come Alberto, il collega di Mattia, il padre mai nominato di Alice o anche Viola, la sua compagna di classe, risultano abbastanza piatti e un po’ troppo schematici se non trasparenti. Altri, come Nadia, la ragazza con cui Mattia ha una storia, forse non sono nemmeno necessari. Ma per il resto mi sembra che il libro si tenga insieme molto bene.

Non mi resta che attendere con ansia le critiche dei lettori del blog e soprattutto il prossimo libro, sperando sia all’altezza di questo.

giovedì 9 luglio 2009

Cuanta pasión!, Giulia Alberico, Mondadori Strade Blu, 2009


Ho almeno una decina, ma proprio una decina, non scherzo, di libri sul comodino che aspettano di essere letti. Naturalmente tutti sono già stati più o meno assaggiati, sfogliati un po’, macchiati di caffè e poi riposti lì, in attesa del momento giusto per leggerli definitivamente. Allora perché ogni tanto mi prende il bisogno di infilarmi in libreria e comprare altri libri, ancora libri? Non saprei dirlo. Quello che posso dire è che qualche mese fa avevo sentito su Fahrenheit l’intervista a Giulia Alberico (http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=277584 ) e dato che mi aveva molto colpito quello che aveva detto, mi ero riproposta di leggere il suo libro. Ecco e ieri, mentre camminavo in Corso Italia, ho sentito proprio il bisogno di leggere quel libro. Non so perché proprio ieri e perché proprio quel libro. Ma sentivo che ieri ero proprio motivata per quella e solo quella lettura. Sono entrata in libreria e il commesso mi ha detto che non tenevano libri in spagnolo, io ho cercato di spiegargli che solo il titolo era in spagnolo ma che il resto era in italiano, ma niente. Allora sono andata io a scartabellare tra gli scaffali e naturalmente l’ho trovato. L’ho letto tutto d’un fiato in quattro ore di treno.

L’ho trovato un libro molto interessante che ha confermato l’ottima opinione che mi ero fatta dell’autrice, sentendo l’intervista. È un resconto a tratti tenero, a tratti drammatico, di trentadue anni d’insegnamento nella scuola pubblica italiana. Un libro che a ben pensarci, potrebbe essere stato scritto anche da una o due delle mie professoresse del liceo, pieno di passione per la letteratura e soprattutto per l’insegnamento. Bellissimi racconti d’empatia e di aiuto reciproco fra studenti e professoressa, per gli amici professoré. Tragiche gallerie di altri personaggi inquietanti che popolano la scuola e stanno dalla parte della cattedra, presidi degne della Santa Inquisizione e presidi schizofreniche degne di Marilyn Monroe, bidelli forzuti e genitori insopportabili. Sono storie di alunni speciali, forse un po’ fuori dal comune, quelli più inquieti, quelli più difficili, quelli che poi rappresentano le storie di tutti.
Particolarmente emozionante la storia di Jenny Joseph, e poi la storia degli attaccapanni, e quella di quella seconda B di buzzurri, burini scalmanati e future veline che alla fine si emozionano come bambini quando vedono la neve… Fanno per correre verso il balcone, quando una ragazzina mi chiede “Possiamo, prof?”. Sorrido e loro si affollano contro i vetri, sembrano uno stormo di passeri: ridono e danno esclamazioni di gioia stupita. Aprono le finestre, escono sul lungo balcone e con le mani acchiappano i fiocchi, li mangiano, ridono, saltano. Sono bellissimi. È stupefacente! Sembrano dei rozzi e poi si incantano per la neve. Resto in silenzio e li osservo, sono pieni di anima. Si vede. E io capisco che verso di loro insieme all’odio vero dei giorni andati ho pure questo moto d’amore altrettanto vero. E tengo insieme tutto.

Il libro si conclude poi con una disamina amara della situazione attuale della scuola pubblica e con un lungimirante discorso di Pietro Calamandrei dell’11 febbraio 1950 (!!) tuttora di sconcertante attualità.
Per fortuna che esistono ancora i professori così, capaci di rendere le scuole dei veri luoghi di formazione, oltre che di informazione, capaci di far pensare, riflettere, creare un pensiero critico. Per fortuna che c’è ancora qualcuno in grado di non accettare le cose e di lottare contro questo stramaledetto e sempre più diffuso pensiero elementare.