venerdì 23 gennaio 2009

Refusi, Diario di un editore incorreggibile, Marco Cassini, ed. Laterza Contromano, 2008

Breve ma interessante e divertentissimo libro!
Marco Cassini, fondatore della casa editrice Minimum Fax (insieme a Daniele di Gennaro), in questo diario di un editore incorreggibile, narra la sua impresa editoriale titanica e le sue divertenti frustrazioni.
Oltre a offrirci una bella visione panoramica del mondo dell’editoria (con tanto di corposa bibliografia sul tema, intitolata “Guida per riconoscere i tuoi santi”) e oltre a una lezione di coerenza e dignità e autostima che deve avere una casa editrice, ci racconta com’è nata la sua Minimum Fax (esattamente da un fax, anzi da più fax, ma non dico altro); ci parla di com’è difficile il mestiere dell’editore, sempre intento a contrattare diritti, sempre all’erta e alla ricerca del talento letterario o del libro sperduto che va ripubblicato, e ci tiene aggiornati sul suo stato di salute, sulle bollicine della sua pelle.

Particolarmente bello il momento dell’acquisizione dei diritti di Carver (per chi non lo sapesse, il SUO scrittore preferito…), ma anche i viaggi a New York, le visioni sul Tevere, i racconti di come ogni persona con cui lui entri in contatto cerchi sempre di rifilargli un libro di poesie che teneva nel cassetto da anni, di come una casa editrice non debba cadere nella trappola del “libro facile”, cioè di poco valore ma che vende bene. Infine, ci racconta di come la Minimum Fax abbia rischiato, messo a repentaglio beni e salute dei suoi creatori, mantenendo una propria coerenza e di come incredibilmente ne sia uscita (e ne stia tuttora uscendo) vittoriosa, destreggiandosi niente male fra i vasi di ferro della cosiddetta editoria importante.

E poi è, tutto sommato, la kafkiana ma realistica metamorfosi di un uomo in un libro!
Da leggere!

"Spesso spilucco, assaggio appena, intingo solo il dito per verificare il sugo della storia, per assaporarne la temperatura, la densità, il grado di cottura. O invece divoro, azzanno, mi immergo da capo a piedi nelle pagine senza indugi né timore di scottarmi o di gelare, come se entrassi in una piscina a trentasette gradi.
Ho da tempo, per fortuna, superato il senso di colpa da abbandono e - proprio perché devo e voglio leggere tanto, e tanto più di quanto non mi consenta il tempo a disposizione - se trovo un freno, se c'è un ostacolo di qualsivoglia origine o natura, una monetina incastrata nel binario che non consente al tram della lettura di procedere spedito, o anche una distrazione (e quasi sempre la distrazione che mi fa interrompere una lettura è un'altra lettura), io, sì, lo confesso, abbandono.
Abbandono il libro, è vero, ma non vuol dire che lo stia lasciando per sempre: come si dicono due fidanzati che si separano senza rancore, 'restiamo amici'."

"A ripensarli ora, tutti i libri non ancora finiti della mia vita, tutte quelle porte aperte, li vedo creare corrente, agitare l'aria delle storie accumulate nella mia testa, nei miei ricordi: decine di saggi, poesie, romanzi e racconti, centinaia di ambientazioni, migliaia di città, milioni di personaggi, forse più delle persone vere che ho conosciuto in tutta la mia vita. E si agitano, sollevano le tende delle finestre, fanno perfino dondolare pericolosamente qualche lampadario. Mi piace tenere queste porte, queste storie aperte, così come mi piace poi trovare il momento giusto, il momento perfetto per chiuderle..."

giovedì 15 gennaio 2009

Il Minotauro, Friedrich Dürrenmatt, traduzione di Umberto Gandini, ed. Marcos y Marcos



Questo libro mi è capitato fra le mani per caso mentre rovistavo tra gli scaffali semivuoti – svigoriti dalle razzie natalizie– di Feltrinelli, qualche giorno fa. In realtà ammetto che stavo sbirciando il commesso bello che andava avanti e indietro dispensando consigli con la sua voce felpata e il suo naso prorompente. In un attimo in cui lui si è avventurato pericolosamente nella mia direzione, ho affondato il naso nel primo libro sottomano. Che era questo.

Le edizioni Marcos y Marcos hanno il pregio di fare dei risvolti di copertina davvero accattivanti (maledetti ammaliatori) che a volte – solo a volte – non sono all’altezza del resto del libro. Il risvolto stavolta era così:
“Lui danzò la sua deformità,
lei danzò la sua bellezza,
lui danzò la gioia di averla trovata,
lei danzò la paura di essere stata trovata,
lui danzò la sua liberazione,
lei danzò il suo destino,
lui danzò la sua smania,
e lei danzò la sua curiosità…” Come resistere?!

È un libriccino che si legge velocissimamente anche nel corso di un pasto solitario (74 pagine con testo a fronte in tedesco e illustrazioni dell’autore). Bel rovesciamento del mito del Minotauro che nella versione di Dürrenmatt si trova in un labirinto di specchi alle prese con la sua immagine e coi mille riflessi di se stesso. Si trasforma così in metafora del genere umano, metafora dell’anormalità, del rapporto con se stessi e col cosiddetto “altro da sé”, in un susseguirsi di vicende che hanno a che fare con lui, con Teseo e con Arianna… è in gioco l’essere con la sua ombra e il suo accettarsi-non accettarsi-non capire... Questo drammatico racconto che in realtà si apre a qualsiasi genere di interpretazione filosofica, finisce presto e male.
Ci lascia un po’ spaesati e naturalmente schierati dalla parte del Minotaurus.

mercoledì 14 gennaio 2009

Italiopoli, Oliviero Beha, 2008, ed. TEA


A me, invece, dispiace inaugurare questo spazio recensendo un libro che non avrei mai voluto leggere. A questo punto vi chiederete perché l’ho fatto. Magari per molti non è una giustificazione sufficiente, ma il motivo principale è che il libro mi è stato regalato e mi sarebbe dispiaciuto relegarlo in un cassetto quando qualcun altro lo aveva scelto per me. Ma l’ho letto anche perché volevo smentire chi mi accusa (non sempre a torto) di leggere sempre lo stesso genere di libri. Così, a caldo, direi quasi di essermene pentito.

Sì, perché sarà anche precedente a La casta, ma la tentazione di definire Italiopoli la brutta copia del bestseller di Sella e Rizzo è troppo forte. Preciso subito che a livello stilistico anche il primo lascia molto a desiderare, anche se la lettura è decisamente più scorrevole e soprattutto ricca di esempi. Nel suo libro, invece, Beha spende oltre duecento pagine nel tentativo – miseramente fallito – di presentare un quadro obiettivo e riccamente documentato dell’Italia del potere, in primo luogo politico, attraverso la metafora centrale del Residence. Un’immagine, tra l’altro abbastanza calzante, usata per descrivere la stanza dei bottoni ormai allargatasi a dismisura in vari settori della società italiana, col suo corollario di intoccabili che lottano per difendere il potere acquisito. Volendo dare un voto alla metafora si potrebbe azzardare un 7; dell’originalità, invece, meglio tacere. Direte voi: l’originalità starà nell’avere condannato tale sistema di privilegi prima de La casta. E avreste perfino ragione. Sennonché il tutto rimane sospeso in una costruzione astratta e labirintica che non è sostenuta da alcun dato concreto, cifra o cronologia di eventi che non sia fine a se stessa.

Giusto per dare un’idea dei voli pindarici del giornalista de l’Unità, i capitoli analizzano il mondo del calcio, quello dello spettacolo con Nanni Moretti e la Ferilli (che, riducendo all’osso il concetto elegantemente espresso da Beha, dice di essere di sinistra quando le fa comodo per questioni di immagine e poi gira tutti i cinepanettoni possibili senza doversi giustificare, tanto il concetto di sinistra è ormai fin troppo vago), la classe politica – ovviamente – cui viene sovrapposta la descrizione della mafia fatta da Falcone, la televisione pubblica e il cambiamento climatico (?!). In tutto questo, ogni capitolo è costruito in modo tale che appena si comincia a intravedere un filo logico l’autore annuncia il successivo, che risulta altrettanto criptico.

Volendo proprio cimentarsi nell’eroica impresa di estrarre alcuni concetti chiave dal monologo di Beha, si potrebbe citare, in primo luogo, la distinzione tra i concetti di conoscenza e coscienza (anche in questo caso l’enunciazione originale è più confusa, ma è di questo che si tratta) nell’era digitale, in cui la stragrande maggioranza dei dati è di dominio pubblico, ma non per questo i cittadini sono necessariamente più informati e di conseguenza indignati. In secondo luogo, per difendersi dalle identiche accuse di qualunquismo rivolte da più parti a La casta, Beha sottolinea come la destra e la sinistra attuali non siano tanto simili quanto complementari, nel senso che fingono disaccordo per salvare la faccia davanti all’opinione pubblica e poi si accordano sottobanco per difendere i propri interessi trasversali. Anche questo diventa un concetto ricorrente, esemplificato dal caso della Ferilli-bifronte di cui sopra.

Ma la vera caratteristica distintiva del libro risiede nella sintassi, al limite delle facoltà umane, e nel lessico baroccheggiante che dice tutto ma molto più spesso non dice niente. Sono disposto a scusarmi pubblicamente della recensione a patto che qualcuno mi convinca che un autore può parlare di cambiamento, se non di vera e propria rivoluzione, usando espressioni come “una serqua di ovvietà” (p. 145), “la callipigia Ferilli” e “le nequizie sesquipedali dei parlamentari” (scusate, queste due perle le cito a memoria) in un periodare che raramente si limita alle otto righe ma in compenso risparmia sui verbi. Insomma, un insieme di stile e contenuto davvero deludente per quello che dovrebbe essere il nuovo giornalismo italiano di rottura.

Eppure una cosa del libro si salva – ed è il motivo per cui ne consiglio comunque la lettura, rivedendo la mia risposta iniziale –, ovvero l’appendice Parole e numeri a cura di una giornalista a me sconosciuta, Monica Raucci, che fornisce tutti i dati e le cifre assenti nel libro. Ovviamente per trarne piacere non è necessario leggere le 219 pagine precedenti.

martedì 13 gennaio 2009

Il Paese Sotto La Pelle, Gioconda Belli, traduzione di Margherita D'Amico, ed. e/o



Sono molto contenta, oggi, di iniziare il blog e l’anno con questo libro!
Ho scoperto Gioconda Belli per caso, una volta che gironzolavo per poesie in internet e sono finita su questo sito http://amediavoz.com/belli.htm . Sono rimasta intrappolata per un pomeriggio intero nelle sue poesie. Pochi giorni dopo ero già alle prese coi suoi libri.
Ora ho appena finito “Il paese sotto la pelle” e sono ancora frastornata e commossa; è già passata mezz’ora da quando ho chiuso l’ultima pagina e ancora non riesco a riprendermi. È uno di quei libri che ti tirano dentro alla storia per i capelli e che anche quando smetti di leggerli, continuano a fluttuarti negli occhi, a infestarti i pensieri.

È un’autobiografia di una vita incredibile che mescola vita privata a vita politica; l’autrice si racconta, lei che ha partecipato attivamente alla Rivoluzione del ’79 in Nicaragua e faceva parte del Fronte Sandinista contro la dittatura di Somoza. In queste pagine narra sofferte battaglie politiche, storie personali strampalate, vittorie e sconfitte. È infatti, in sostanza, la storia della traiettoria politica, ma soprattutto umana di una donna (molto tosta) con le sue debolezze e la sua tenacia, con la sua umanità e le sue utopie.
Questo libro ha il pregio di restituirci la Storia e la politica come qualcosa di vicino a noi, finalmente si ha l’impressione che la Storia con esse maiuscola passi su di noi, dipenda da noi; finalmente tutto acquista un volto umano. Gli uomini e le donne che hanno fatto la Rivoluzione hanno una faccia, una vita, hanno dei difetti, si divertono, hanno i calzini che si sfilano… tutto sembra vicino, accessibile, comprensibile. E intanto la Storia si compie. E sono loro a compierla. Siamo noi. Camminiamo con loro per le strade di Managua, sentiamo i suoi odori, vediamo i suoi laghi e i suoi vulcani, partecipiamo alle sue lotte.

Non so se lo definirei un “libro impegnato”, non so bene quando la letteratura sia impegnata.
Forse la letteratura è davvero impegnata non quando fa i nomi, non quando denuncia apertamente, ma semplicemente quando risveglia nel lettore un senso civico, quando accompagna silenziosamente una presa di coscienza; quando si ha la sensazione che si sta leggendo un libro che non astrae, che non ti porta in un mondo fatato, ma che ti riporta giù nel mondo reale, che t’infanga i piedi e che ti mostra cose straordinarie e cose di tutti i giorni con altri occhi. Allora sì, in questo senso sì, è un libro impegnatissimo.

Nonostante il dolore di certi passaggi, la drammaticità della clandestinità e la perdita di molti compagni che hanno pagato col sangue la libertà; nonostante la tragicità dei conflitti interiori, degli amori turbolenti e della maternità non sempre facile, è sempre presente un’esuberante e irresistibile voglia di vivere che straripa da ogni parola di ogni pagina, che irrompe nelle sterminate gallerie di personaggi, che si fa quasi tangibile e che resta… resta anche dopo aver finito il capitolo. Anche dopo aver riposto il libro. Anche dopo aver chiuso l’ultima pagina.
Il tutto è naturalmente scritto in maniera magistrale.
Penso che sia un libro da leggere assolutamente perché è una grande lezione, un grande esempio umano per tutte le persone e soprattutto per tutte le donne “in fieri”. In ogni caso, queste poche parole non riescono a restituire l’emozione e il turbamento che questo libro mi ha provocato; temo che non vi resti che leggerlo!

Effetti collaterali:
1) Viene voglia di fare un salto in Nicaragua o in California o dovunque lei sia, per dare un abbraccio a Gioconda.
2) Se lo si legge di sera prima di dormire, i sogni vengono immancabilmente invasi da bellissimi guerriglieri, imboscate, missioni pericolose, incontri con Fidel Castro.


Estratti:

“Avevo diciannove anni quando nacque mia figlia Maryam. Ricordo l’albero di caucciù che si ergeva rigoglioso di fronte al mio letto, nel reparto privato dell’ospedale Bautista. Le sue foglie lucide mandavano lampi verdi e viola sotto i raggi del sole vespertino e si muovevano nella brezza facendomi pensare alle orecchie di un animale preistorico. Ogni volta che mi torcevo per le contrazioni cercavo di rilassarmi contando le foglie, respirando profondamente. Opporre resistenza al dolore era controproducente, dicevano. Volevo essere stoica, un albero che sopportava gli assalti del vento e della pioggia. […]
Non esisteva altro che il mio ventre pulsante.
I medici e le infermiere che di tanto in tanto mi giravano attorno, facevano commenti sulla mia giovane età. Io, invece, mi sentivo antica; parte del molteplice corpo femminile che condivideva, con questo rito di passaggio, il potere delle violente scosse da cui erano emersi il mare, i continenti, la vita.”

“Eravamo folli tutti noi? Quale mistero genetico faceva sì che la specie umana superasse l’istinto di sopravvivenza individuale quando la tribù, la collettività si trovava in pericolo? Qual era la ragione per cui si era capaci di sacrificare la vita per un’idea, per la libertà altrui? Perché l’impulso eroico era tanto forte? Quel che a me sembrava più straordinario era la felicità, la pienezza che c’era nell’impegno. La vita acquistava un senso completo, una meta, uno scopo. Si provava una complicità assoluta, un legame viscerale con centinaia di volti anonimi, un’intimità collettiva nella quale scompariva qualsiasi sentimento di solitudine o di isolamento. Nel lottare per la felicità di tutti, si trovava prima di tutto la propria.”

“Mi rendo conto che la Rivoluzione non è stata per me una semplice escursione fuori dalla mia traiettoria, un viaggio all’altro lato del pianeta. È stata un fatto definitivo che mi ha cambiata per sempre. Allorché decisi di stare accanto a Carlos, venni tormentata più volte dall’idea di star diventando leggera, compiacente, di assumere un comportamento che si suole definire “realista”, di appendere i guantoni al chiodo e rassegnarmi ad accettare di aver perso la battaglia, o nel migliore dei casi, che toccherà ad altri lottare per le nuove utopie. Da questi pensieri, comunque, mi allontanò la realtà stessa della mia vita, che si assunse il compito di insegnarmi che l’impegno non si deve sempre pagare con il sangue, o non sempre richiede l’eroismo di morire sulla linea del fuoco. Esiste un eroismo della pace e dell’equilibrio, un eroismo accessibile e quotidiano che, sebbene non sfidi la morte, ci spinge a sfruttare tutte le possibilità della vita e a viverne non una, ma tante vite contemporaneamente.”

… vabbè basta sennò ci dovrei mettere tutto il libro…