giovedì 10 dicembre 2009

Lo spazio bianco, Valeria Parrella, Einaudi, 2008



Io non so aspettare e non voglio farlo, nell’attesa i mostri prendono forma e si ingigantiscono, mangiano le ore per crescere e mangiarmi. Non sento curiosità nel dubbio, né fascino nella speranza, fossi stata Eracle, non mi sarei fermata al bivio.

È uno di quei libri per i quali bisogna essere nel mood giusto. Il mood giusto non è tanto quello dell’attesa, né quello dell’immobilità, né quello dello spazio bianco, come fa credere il titolo e la quarta di copertina e le recensioni varie… Non è il mood del tempo sospeso; è quello del tempo pregnante. Quella che esce da questo romanzo, fiorendo sulle parole di qua e di là, è una strana forza; una strana (perché nuova) volontà di autodeterminazione e di libertà, una forza che permette di fare una scelta di fronte ad aspetti nuovi che fanno irruzione all’improvviso nella vita e la sconvologono.
Non mi ricordo più chi ha detto che nei grandi classici le storie d’amore sono perfette perché l’innamoramento viene narrato come l’arrivo di qualcosa a capovolgere i precedenti progetti emotivi. Ecco, io non so che progetti emotivi avesse questa Maria del libro quando le succede tutto e non sono neanche sicura che questa sia una storia d’amore (materno). Forse. Di sicuro succede qualcosa a un certo punto, che cambia i disegni emotivi della protagonista e lei, con una grande forza interiore, dilaniata tra il rifiuto e la volontà di andare avanti, vi fa fronte. Come ci tocca fare, ogni volta, del resto, nella vita reale.
La scrittura procede con polso fermo e allo stesso tempo sembra sinuosa; è come addentare un boccone di carne buona con molti nervetti e cartilagini. A volte un po’ difficili da masticare, ma buoni. Le immagini sono colorate, mostrano un dispiegarsi di un’umanità incredibile e squarci di Napoli di una bellezza tutta sua, tutta soggettiva, che arriva dritto dove deve arrivare.
E poi il film. All’inizio, come sempre quando si guarda un film tratto da un libro, mi sono un po’ arrabbiata per le cose diverse (perché nel film non c’è la psicologa dell’ospedale e la dottoressa è diventata un dottore? Perché mettere il personaggio della donna magistrato che nel libro non c’era? Perché l’ex fidanzato musicista che nel libro non c’era?), ma poi mi sono rilassata e ho smesso di farmi domande e ho pensato che il film fosse davvero riuscito perché quando sono uscita dal cinema mi sono sentita un po’ più forte, come quando ho chiuso il libro. Con quella sensazione così difficile da esprimere, e che solo la letteratura o il cinema o l’arte sono capaci di dare, e cioè la sensazione che non si è mai soli, che qualcun altro in qualche punto del mondo sta provando le stesse sensazioni che stanno scombussolando te; che qualcun altro ha le tue stesse paure, e allora leggere o guardare un film è come stringersi la mano un po’ con tutti. È un po’ come dirci a vicenda che non siamo soli. E che forse, in tanti, siamo un po’ più forti. Il film è il libro visto da un angolo. O da sopra. È una visione un po’ personalizzata e un po’ onirica, è una traduzione nella lingua degli occhi, insomma, una bella reinterpretazione.
Applausi a scrittrice e regista.

1 commento:

  1. bella la recinzione, domani appena mi sveglio senza aspettare vado a cercare uno spazio bianco.

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