domenica 24 gennaio 2010

Io sono Charlotte Simmons (I Am Charlotte Simmons), Tom Wolfe, trad. di Marta Matteini, ed. Mondadori, 2008


I romanzi di Wolfe sono nel vero senso del termine uno spaccato di specifiche realtà americane. Spaccato perché l’azione comincia in medias res e finisce altrettanto bruscamente. Se questo è vero per Il falò delle vanità (The Bonfire of the Vanities), ritenuto a buon diritto uno dei pilastri della narrativa americana contemporanea, lo è ancora di più per Io sono Charlotte Simmons, del cui finale parleremo dopo. Tutto ciò che Wolfe lascia in mezzo tra l’incipit e il finale è una vetrina per il sapere enciclopedico che l’autore ha saputo accumulare documentandosi come fa sempre prima di scrivere un libro. Non ci sarebbe niente di male se Wolfe non si sentisse automaticamente in diritto di appesantire anche le scene più insignificanti con pedanti notazioni accademiche e termini evidentemente a lui cari che non hanno nessuna ragion d’essere nell’economia del romanzo. Al terzo capitolo il lettore già invoca pietà e si rassegna all’inevitabile.

A questo punto la trama: Charlotte Simmons è una ragazza che vive in uno sperduto paesino del North Carolina e, finito il liceo, riceve una borsa di studio per andare a studiare nella prestigiosa università Dupont, frequentata dall’élite statunitense. Catapultata in una nuova realtà, attraversa una crisi di indentità determinata dallo stravolgimento dei valori propri della sua educazione cattolica e della vita in un piccolo paesino di montagna. Charlotte vive da estranea in un microcosmo descritto come un girone dantesco popolato di fornicatori e studenti guidati dagli istinti più bassi. Ignorata dalla sua compagna di stanza, nata in una famiglia agiata e che frequenta i giri cool del campus, Charlotte si aggrappa in un primo momento alle proprie capacità accademiche e al sogno di diventare qualcuno grazie alle propria intelligenza, che la distingue dal resto degli studenti. Il mantra “Io sono Charlotte Simmons” si infrange però ben presto contro il bisogno di venire accettata e la protagonista cede lentamente e inconsciamente alla avances del leader più cool di una popolare fraternity, fino a quando – convinta di avere trovato il vero amore – perde con lui la verginità per essere però dimenticata già il giorno dopo. Segue un lungo periodo di depressione e, solo dopo varie sofferenze e deludenti risultati accademici, Charlotte ritroverà la voglia di affrontare il campus e riprendere a vivere… accanto a uno dei cosiddetti studenti-atleti, convertitosi grazie a lei allo studio redentore della filosofia.

Tralasciando le varie storie di contorno, che hanno un ruolo preciso ma marginale all’interno del romanzo, molti parlano di un finale in cui Charlotte accetta le proprie sofferenze e i traumi psicologici ricordandosi di essere speciale e riuscendo a risorgere. Eppure non riesco a non vedere proprio nella fine abbozzata una sconfitta per la ragazza che aveva sempre fatto della propria straordinaria individualità la propria forza e che non aveva mai accettato (se non per degli impulsi sbagliati) di scendere a compromessi per essere accolta dal resto del college, e che invece nel giro di poche pagine si iscrive alla sorority più in della Dupont, diventa la ragazza di uno di quegli atleti sempre definiti come ‘scimmioni’ (seppur elevatosi al pensiero di Socrate) e soprattutto arriva, anche se per un attimo, a rinnegare l’amicizia di Adam – uno dei partecipanti all’unico gruppo di studenti in grado di discutere di qualcosa di diverso dal football o dal sesso. Insomma, la Charlotte che nelle ultime pagine è la star dell’università solo perché sta col giocatore di basket più popolare e che si sforza di sorridere in pubblico per dimostrarsi felice a tutti i costi non può non essere la Charlotte di Sparta, North Carolina. Magari un finale dai contorni più chiari avrebbe eliminato l’ambiguità.

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