mercoledì 14 gennaio 2009

Italiopoli, Oliviero Beha, 2008, ed. TEA


A me, invece, dispiace inaugurare questo spazio recensendo un libro che non avrei mai voluto leggere. A questo punto vi chiederete perché l’ho fatto. Magari per molti non è una giustificazione sufficiente, ma il motivo principale è che il libro mi è stato regalato e mi sarebbe dispiaciuto relegarlo in un cassetto quando qualcun altro lo aveva scelto per me. Ma l’ho letto anche perché volevo smentire chi mi accusa (non sempre a torto) di leggere sempre lo stesso genere di libri. Così, a caldo, direi quasi di essermene pentito.

Sì, perché sarà anche precedente a La casta, ma la tentazione di definire Italiopoli la brutta copia del bestseller di Sella e Rizzo è troppo forte. Preciso subito che a livello stilistico anche il primo lascia molto a desiderare, anche se la lettura è decisamente più scorrevole e soprattutto ricca di esempi. Nel suo libro, invece, Beha spende oltre duecento pagine nel tentativo – miseramente fallito – di presentare un quadro obiettivo e riccamente documentato dell’Italia del potere, in primo luogo politico, attraverso la metafora centrale del Residence. Un’immagine, tra l’altro abbastanza calzante, usata per descrivere la stanza dei bottoni ormai allargatasi a dismisura in vari settori della società italiana, col suo corollario di intoccabili che lottano per difendere il potere acquisito. Volendo dare un voto alla metafora si potrebbe azzardare un 7; dell’originalità, invece, meglio tacere. Direte voi: l’originalità starà nell’avere condannato tale sistema di privilegi prima de La casta. E avreste perfino ragione. Sennonché il tutto rimane sospeso in una costruzione astratta e labirintica che non è sostenuta da alcun dato concreto, cifra o cronologia di eventi che non sia fine a se stessa.

Giusto per dare un’idea dei voli pindarici del giornalista de l’Unità, i capitoli analizzano il mondo del calcio, quello dello spettacolo con Nanni Moretti e la Ferilli (che, riducendo all’osso il concetto elegantemente espresso da Beha, dice di essere di sinistra quando le fa comodo per questioni di immagine e poi gira tutti i cinepanettoni possibili senza doversi giustificare, tanto il concetto di sinistra è ormai fin troppo vago), la classe politica – ovviamente – cui viene sovrapposta la descrizione della mafia fatta da Falcone, la televisione pubblica e il cambiamento climatico (?!). In tutto questo, ogni capitolo è costruito in modo tale che appena si comincia a intravedere un filo logico l’autore annuncia il successivo, che risulta altrettanto criptico.

Volendo proprio cimentarsi nell’eroica impresa di estrarre alcuni concetti chiave dal monologo di Beha, si potrebbe citare, in primo luogo, la distinzione tra i concetti di conoscenza e coscienza (anche in questo caso l’enunciazione originale è più confusa, ma è di questo che si tratta) nell’era digitale, in cui la stragrande maggioranza dei dati è di dominio pubblico, ma non per questo i cittadini sono necessariamente più informati e di conseguenza indignati. In secondo luogo, per difendersi dalle identiche accuse di qualunquismo rivolte da più parti a La casta, Beha sottolinea come la destra e la sinistra attuali non siano tanto simili quanto complementari, nel senso che fingono disaccordo per salvare la faccia davanti all’opinione pubblica e poi si accordano sottobanco per difendere i propri interessi trasversali. Anche questo diventa un concetto ricorrente, esemplificato dal caso della Ferilli-bifronte di cui sopra.

Ma la vera caratteristica distintiva del libro risiede nella sintassi, al limite delle facoltà umane, e nel lessico baroccheggiante che dice tutto ma molto più spesso non dice niente. Sono disposto a scusarmi pubblicamente della recensione a patto che qualcuno mi convinca che un autore può parlare di cambiamento, se non di vera e propria rivoluzione, usando espressioni come “una serqua di ovvietà” (p. 145), “la callipigia Ferilli” e “le nequizie sesquipedali dei parlamentari” (scusate, queste due perle le cito a memoria) in un periodare che raramente si limita alle otto righe ma in compenso risparmia sui verbi. Insomma, un insieme di stile e contenuto davvero deludente per quello che dovrebbe essere il nuovo giornalismo italiano di rottura.

Eppure una cosa del libro si salva – ed è il motivo per cui ne consiglio comunque la lettura, rivedendo la mia risposta iniziale –, ovvero l’appendice Parole e numeri a cura di una giornalista a me sconosciuta, Monica Raucci, che fornisce tutti i dati e le cifre assenti nel libro. Ovviamente per trarne piacere non è necessario leggere le 219 pagine precedenti.

2 commenti:

  1. ihihiih! benissimo! così sappiamo anche che libri NON leggere...ma come sei bravo che leggi i libri che ti regalano, non è da tutti! Ma, come già ti dissi che qualcuno disse, la vita è troppo corta per leggere libri brutti! Comunque grazie, andremo in libreria a sfogliare furtivamente solo le ultime pagine!

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