mercoledì 29 aprile 2009

La metamorfosi delle piante dei piedi (A metamorfose das plantas dos pés), Catarina Nunes de Almeida, trad. di Martino Baldi, ed. LietoColle 2008





Intervallo poetico. Ho letto questo bel libro di poesie scritte da Catarina Nunes de Almeida (dottoranda all'Università di Pisa) che mi ha felicemente colpito.

Il titolo riprende quello famoso di Goethe e ci aggiunge un tocco ironico, la metamorfosi delle piante dei piedi. Ironico, non soltanto, perché tutto il libro si sviluppa, in effetti, sulla progressiva e a volte addirittura violenta simbiosi dell'uomo con la natura. Non è solo una simbiosi vagheggiata o semplicemente auspicata, è qualcosa di fisico, di travolgente. Sono poesie a volte soffiate quasi sottovoce, altre volte dirompenti; e si snodano attorno a una fantasia torrenziale e piacevolmente allucinata.

Botanica, erbivora, ma anche carnale e un po' carnivora, definirei questa poesia visionaria.

È una continua esaltazione del corpo nella sua unione fisica col vegetale, un inno alla natura, un ritorno alle proprie radici infangate... mi ha ricordato certi dipinti di Frida Kahlo.


Come dice António Fournier nella postfazione: " Corpo come luogo vegetale, come biologia dell'uomo: un filone che collega Catarina Nunes de Almeida, non solo a Daniel Faria, ma anche a Jorge Reis-Sá, un filone poetico portoghese inaugurato forse da Al Berto con quel suo zibaldone portatile che era O Medo (La paura), che ha anche alimentato una nuova generazione di giovani talentuosi e precoci quale Catarina Nunes de Almeida, figli del tempo nostro, e quindi bambini in rovina, come direbbe José Luís Peixoto".
Os homens vinham soprar nos teus lábios a música das folhas
e acreditavam ter nos braços a árvore onde cresceram em silêncio
durante três estações. Eram esses lábios a tuba que anunciava
a primeira morte. As pernas confundindo-se com as raízes:
nenhum escutaria de novo o chilrear das crianças
a língua dos prados tão livre de declinações.
Dormiam e acordavam no teu sangue
o único jardim a que chamavam casa.

Gli uomini venivano a soffiare nelle tue labbra la musica delle foglie
e credevano di avere nelle braccia l’albero dove crebbero in silenzio
per tre stagioni. Erano quelle labbra la tuba che annunciava
la prima morte. Le gambe confondendosi con le radici:
nessuno ascolterebbe di nuovo il cinguettìo dei bambini
la lingua dei prati tanto libera dalle declinazioni.
Dormivano e si svegliavano nel tuo sangue
l’unico giardino che chiamavano casa.


Nessun commento:

Posta un commento